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L’ANGOLO DEDICATO AL LIBRO

L’ANGOLO DEDICATO AL LIBRO

ACQUA DI MARE di Charles Simmons

Questa settimana consigliamo il libro di Charles Simmons, scrittore ed editore americano, “Acqua di mare”. Siamo nell’estate del 1963 e il sedicenne Micheal passa l’estate sull’isola atlantica di Bone Point con il padre. Un romanzo commovente che racconta il rapporto quasi idilliaco tra Micheal e l’affascinante padre, compagno di lunghe nuotate, di lunghe chiacchierate sulla vita, di bellissime giornate in barca. Da amici e complici i due, con l’arrivo di Zina, affascinante ragazza russa, diverranno rivali in amore. Una storia d’amore e di attrazione, soprattutto un romanzo che racconta il legame tra il ragazzo e suo padre, uomo affascinante e eroe inadeguato. Ambiguo, intenso, intrigante, una piccola saga dell’adolescenza.

Di seguito un breve brano: «Papà e io pescavamo sulla spiaggia kingfish, ombrine, pomatomi e persici. I persici erano i più combattivi e i più buoni da mangiare. Catturavamo anche molti squali di acqua bassa, pesci piccoli e inutili che ributtavamo dentro. A volte pescavamo anche gli squali veri, con l’amo grande, troppo pesante per il lancio. Agganciavamo all’amo una bistecca di sgombro, io la portavo al largo a nuoto e la lasciavo cadere sul fondo. Anche da piccolo facevo così, se non che allora uscivo galleggiando nel mio salvagente, mollavo l’amo e papà mi tirava a riva con una fune. La mamma non impazziva di gioia, anche se questo lo facevamo solo quando il mare era tranquillo. Una volta agganciammo uno squalo martello di quasi cinquanta chili, il pesce più strano che abbia mai visto. Aveva la testa che sembrava la mazza di un fabbro e gli occhi sui lati. Dicevano che fosse un mangiatore di uomini, ma secondo papà non era vero.

Pescavamo anche razze. Quando papà ne agganciava una mentre ero in casa, gridava, e io correvo fuori con il rampone. Le razze sono pesci larghi e piatti. A volte, se le agganci a riva, in acqua bassa, si appiccicano al fondo e non riesci più a tirarle fuori. Devi uscire con gli stivali da pesca e trafiggerle con il rampone, in modo che l’acqua penetri e non hanno più “tenuta”. Catturavamo razze larghe un metro e mezzo. Hanno una coda appuntita che usano come frusta, e se ti colpiscono è una bella legnata. Prima di provare a trafiggerle bisogna bloccare la coda sotto un piede e mozzarla. Ci sono posti dove le razze si mangiano, ma noi non le mangiavamo.
Io non uscivo mai con il rampone. Papà non me lo permetteva. Andava lui, e io tenevo la canna. Una volta, quando papà le aveva già tagliato la coda e trafitto il corpo, una razza scappò con rampone e tutto, trascinandomi dietro. Il mulinello era in posizione di fermo. Io tenni forte la canna da pesca e fui trascinato fino al punto in cui c’era papà; allora lui prese la canna e alla fine riuscimmo a recuperare la razza quando era quasi morta. Tagliammo la lenza e lei se ne andò alla deriva.

“Se non ci fossi stato io,” disse papà, “fino a quando l’avresti tenuta… per sempre?”

“Si” risposi, e lui mi diede una strizzatina alla spalla. Quell’estate avevo sette anni.»

redazione.lecceoggi@gmail.com

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