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LE DONNE NELLA STORIA: ARTEMISIA GENTILESCHI PITTRICE DI SCUOLA CARAVAGGESCA

LE DONNE NELLA STORIA: ARTEMISIA GENTILESCHI PITTRICE DI SCUOLA CARAVAGGESCA

Artemisia Gentileschi, nata a Roma l’8 luglio 1593 morta a Napoli nel 1653) Artemisia Lomi Gentileschi è un fulgido esempio di donna che si è interessata all’arte pittorica.

Vissuta durante la prima metà del XVII secolo, riprese dal padre Orazio il limpido rigore disegnativo, innestandovi una forte accentuazione drammatica ripresa dalle opere del Caravaggio, che ebbe modo di conoscere di  persona, essendo un cliente di suo padre Orazio per procurarsi le travi da sostegno per le proprie opere. Caricata di effetti teatrali; contribuì alla diffusione del “caravaggismo” a Napoli, città in cui si era trasferita dal 1630.

A causa delle pressanti restrizioni paterne, Artemisia imparò la pittura confinata entro le mura domestiche, non potendo fruire degli stessi percorsi di apprendimento intrapresi dai colleghi maschi: la pittura all’epoca, era, infatti, considerata una pratica quasi esclusivamente maschile.

Nel 1608-1609 il rapporto tra Artemisia e il padre si trasformò da un discepolato a una fattiva collaborazione: la Gentileschi, infatti, iniziò a intervenire su alcune tele paterne, per poi produrre piccole opere d’arte autonomamente. Nel 1610 produsse quella che secondo alcuni critici è la tela che suggella ufficialmente l’ingresso della Gentileschi nel mondo dell’arte: si tratta di “Susanna e i vecchioni”

Giovanni Baglione, uno dei suoi biografi più noti, scrisse che: «Lasciò egli figliuoli, ed una femmina, Artemisia nominata, alla quale egli imparò gli artificj della pintura, e particolarmente di ritrarre dal naturale, sicché buona riuscita ella fece, e molto bene portossi»

Ancora giovanissima, nel 1611, fu stuprata da un suo “maestro”, tale Agostino Tassi, soprannominato «lo smargiasso», un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil (letteralmente “inganna l’occhio”), ma anche una persona riprovevole sotto molti aspetti etici e morali.

Orazio, dal canto suo, tacque sulla vicenda, nonostante Artemisia l’avesse informato sin da subito. Fu solo nel marzo del 1612, quando la figliola scoprì che Tassi era già coniugato, e quindi impossibilitato al matrimonio, che papà Gentileschi ribollì per l’indignazione e, indirizzò un’infuocata querela a papa Paolo V.

Il processo ebbe inizio e Artemisia lo affrontò con una notevole dose di coraggio e forza di spirito. il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi e, oltre a comminargli una sanzione pecuniaria, lo condannarono a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione.  Impressionante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista.

Il 29 novembre 1612, giusto due giorni dopo lo sconfortante epilogo del processo, Artemisia Gentileschi convolò a nozze con Pierantonio Stiattesi, un pittore di modesta levatura che «…ha la fama d’uno che vive d’espedienti più che del suo lavoro d’artista»

A dicembre dello stesso anno, Artemisia dopo aver delegato al fratello notaio Giambattista la gestione dei propri affari economici romani, seguì lo sposo a Firenze

La Gentileschi venne introdotta nella corte di Cosimo II dallo zio Aurelio Lomi, fratello di Orazio e, nell’ambiente mediceo, impegnò le sue migliori energie per raccogliere attorno a sé gli ingegni culturalmente più vivi, le intelligenze più aperte, intessendo una fitta rete di relazioni e di scambi. Fra i suoi amici fiorentini Galileo Galilei, con il quale intraprese una fitta corrispondenza epistolare, e Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del celebre artista.

Nel luglio del 1616 venne ammessa alla prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze, istituzione presso la quale sarebbe rimasta iscritta fino al 1620. Prima donna a godere di tale privilegio.

Il cognome adottato durante gli anni fiorentini fu «Lomi», in riferimento a una chiara volontà di emanciparsi dalla figura del padre-padrone.

Artemisia Lomi Gentileschi, però, malgrado il successo riscosso in Firenze, decise di ritornare a Roma, anche a seguito dello scandalo scoppiato per una sua relazione  clandestina (lei madre di quattro figli) con Francesco Maria Maringhi.

Al suo ritorno nella Città Eterna molti protettori, appassionati d’arte e pittori, sia italiani che stranieri, ammiravano con sincero entusiasmo il suo talento artistico.

Questo soggiorno romano è cristallizzato nella “Giuditta con la sua ancella”, tela oggi custodita a Detroit ed omonima di un’altra sua opera del periodo fiorentino.

Tra il 1627 e il 1630 si stabilì, forse alla ricerca di migliori commesse, a Venezia. Nell’estate del 1630 Artemisia si recò a Napoli che, oltre ad essere capitale del viceregno spagnolo e la seconda metropoli europea per popolazione dopo Parigi.

A Napoli, per la prima volta, Artemisia si trovò a dipingere tre tele per una chiesa, per la Cattedrale di Pozzuoli “San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli” “l’Adorazione dei Magi e “ Santi Procolo e Nicea”.

Nel corso del periodo napoletano , re Carlo I, che la stimava molto, la reclamava alla sua corte A Londra; né è testimonianza una sua tela denominata “l’Autoritratto in veste di Pittura“

Artemisia morì nel 1653 e fu sepolta presso la Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini a Napoli, sotto una lapide che recitava due semplici parole: «Heic Artemisia».

Negli anni settanta del secolo scorso Artemisia, anche per la notorietà assunta dal processo per stupro da lei intentato, diventò un simbolo del femminismo internazionale, con numerose associazioni e circoli a lei intitolate. Contribuirono all’affermazione di tale immagine la sua figura di donna impegnata a perseguire la propria indipendenza e la propria affermazione artistica contro le molteplici difficoltà e pregiudizi incontrati nella sua vita travagliata

 

Ottavia Luciani

 

Pubblicato 06 maggio 2020

 

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